Leonardo

Fascicolo 12


Un calunniatore dell'uomo
(Giuseppe Sergi) (I)
di Giuliano il Sofista (Giuseppe Prezzolini)
pp. 12-18


p. 12


p. 13


p. 14


p. 15


p. 16


p. 17


p. 18



«Giuseppe Sergi ci fa rimpiangere
Herbert Spencer!»


   Io vorrei che ognuno di questi saggi fosse una buona tirata d'orecchie, e che tutto il volume suonasse come una sinfonia barbarica di risa, come una fanfara di fischi rivoluzionari, come un Ça Ira schernitore e malevolo. Dietro le loro cuffie positiviste, e sotto i loro berretti da notte hegeliani, nei tempietti Kantiani di Pavia e nei santuari spenceriani di Bologna, i nostri casalinghi filosofi udrebbero con stizza e dispetto le monellerie dei giacobini Leonardiani. E torcerebbero ogni tanto la bocca a quel ghignetto di superiorità proprio dell'uomo che ha una moglie, uno stipendio, e due idee al mese.
   Disgraziatamente non sempre è carnevale, nè si può tutti i giorni rizzar la berlina. Non capita sempre un qualche De Sarlo da cogliere in peccato di ignoranza, o da sorprendere in flagrante delitto di lesa maestà logica. Conviene allora abbandonare la cara semi-serietà Heiniana e nei nostri Reisebilder filosofici introdurre qualche pina d'anatomia, qualche episodio violento, qualche capitolo d'esposizione di mummie.
   Così quest'oggi bisognerà che io faccia della sintomatica e della diagnostica, cioè, un poco di sport medicinale, senza proporre pillole nè tagli chirurgici. Bisognerà che io usi il metodo dei valenti dottori, che per parlare delle malattie dei rachitici, ne espongono due o tre sotto la cattedra, con le loro ossa contorte, le loro smorfie e i loro corpiccioli contratti. Così farò io prendendo Giuseppe Sergi come tipo del positivista italiano, stavo per dire, come tipo del rachitico filosofico italiano.
   Giuseppe Sergi riescito ad essere uomo rappresentativo, senza essere una persona. Parlare di lui, è parlare della mediocrità scientifica e filosofica contemporanea, ridotta, stilizzata, riunita in una sola persona. Sembra che egli abbia fatto raccolta d'ogni bassezza di pensiero, e se ne sia nutrito, impregnato e vestito, tanto da dubitare che esista un Giuseppe Sergi, e da credere che i libri , che vanno sotto il suo nome non siano che la raccolta accurata di un collezionista dei luoghi comuni positivisti esagerati, applicati, intensificati. Dallo scrivere male (1) al non saper nulla di teoria della conoscenza (2), dagli sfoggi più inutili della più seccante biologia (3) fino alle invenzioni più strampalate di una fantastica antropologia ed agli errori statistici e matematici più grossolani (4) egli non ha trascurato nessuna delle espressioni e nessuno degli ingredienti più noti dello scolasticismo positivista. Nè le tendenze democratiche, nè le volgarità anticlericali, nè le contradizioni patenti, nè il culto della scienza biologica, nè l'ignoranza delle scienze esatte, ne la meschina valutazione dell'uomo, nulla nulla s'è scordato. Consideriamo dunque la sua opera come un prezioso armadio nel museo delle degenerazioni filosofiche; esaminiamolo come un aborto che ci narra le difficoltà della sua gestazione; studiamo in lui un arresto di sviluppo del pensiero, un rachitico della metafisica, un impotente morale. E poichè lui, come scrittore, come scienziato, come filosofo, non è che un minuscolo fatto, e i fatti minuscoli annoiano, serviamocene per valutare lo stato d'animo che rappresenta: il positivismo italiano fra il 1870 e il 1890.
   Si è molto discusso per sapere se il Positivismo è un sistema o un metodo; il che equivale a chiedersi se un corpo nero è azzurro o rosso; il positivismo infatti non è nè un metodo nè un sistema, ma uno stato d'animo che si esplica con molti metodi e si traduce in molti sistemi; nè è proprio di un solo tempo, ma fa le sue apparizioni in molti momenti della storia filosofica. E si è pure molto e fin troppo affermato che le origini del Positivismo si dovevan trovare nella negazione del soprannaturale, nello sviluppo delle scienze, nella cresciuta fiducia nel sapere umano; il che equivale a dare per causa, quello che è effetto. Tutte le nostre espressioni razionali, dal più piccolo sillogismo al più colossale sistema metafisico, dalla più ingenua induzione fino alla più nobile sofisticazione dialettica, non sono che espressioni di stati sentimentali, indici di tendenze morali, manifestazioni di caratteri e di temperamenti personali. Così il Positivismo non ha altra origine che uno stato d'animo pessimista; ed ogni volta che questo staio d'animo si presenta, subito esso produce come giustificazione, o come induzione, o come mezzo per fini più lontani, dei sistemi o dei metodi positivisti, sia che questi rivestano forma artistica, che forma filosofica, siano essi romanzi come quelli di Swift, siano poi metafisiche come quella di Schopenhauer..
   Io penso, senza dispiacere soverchio, che farà meraviglia veder classificati fra i Positivisti Jonathan Swift e Arturo Schopenhauer, che il primo di questi non è per i più che un novelliere da putti, il secondo è stato catalogato nelle storie delle filosofie fra i pessimisti e i metafisici.
   Eppure il pensatore irlandese, angoloso di corpo e angoloso di mente, un po' pazzo, ma di una utile pazzia che si è tradotta in belle opere e in vigorosa ironia, ammalato di corpo e incapace d'amore, moralista, anche con le donne, autore di belle favole pei fanciulli, di pungenti libelli per gli uomini e di terribili caricature per i politici del tempo suo, orgoglioso e testardo, dotato di molte siffatte qualità inglesi, misantropo per gli altri e per sè stesso, fino al punto di trasformare in giornata di lutto e di digiuno, quella che gli altri soglion celebrare con festa e gozzoviglia, l'anniversario cioè della propria nascita; il pensatore irlandese sarebbe stato assai contento di conoscere la filosofia positivista, perchè gli avrebbe permesso di ridurre una collera di Napoleone a una cattiva digestione, la guerra dei Sette Anni a un capriccio di prostituta reale, e un'opera d'arte a una degenerazione delle cellule del cervelletto. Jonathan Swift che aveva trovato un alleato negli astronomi quando scoprivano migliaia di mondi, e riducevano la terra a un granello di sabbia, e l'uomo a un miserabile insetto di questo infimo granello, avrebbe con gioia accolto le opere di Ribot e di Lombroso e di Ferri e di Sergi, che l'avrebbero tanto aiutato nella sua smania di calunniare, vilipendere, abbassare l'uomo. E non avrebbe ricorso alla finzione del buon viaggiatore Gulliwer, che scopriva i Lillipuziani, pugnanti per la grave metafisica questione, se le uova sian da rompersi dalla parte acuta o dalla parte tonda; ma avrebbe semplicemente scritto una monografia sull'Uomo di Genio. Sarebbe stato, è vero, meno artista, e incomparabilmente più noioso: ma avrebbe raggiunto egualmente lo scopo..
   E così Arturo Schopenhauer se fosse nato nel 1840 invece che nel 1788, sarebbe stato certamente un positivista; la sua fede in Bichat si sarebbe mutata in ammirazione pel Lombroso, e i suoi studi sulla «Volontà nella Natura» dove già si accenna alle idee di Darwin avrebbero preso lo schematismo genealogico di E. Haeckel. E come non avrebbe applaudito a tutti i tentativi contemporanei d'escludere il potere dell'individuo dalla storia, di ravvicinare l'opera d'arte al delitto, lui che cercava dovunque prove della malvagità e della viltà umana!
   Ma dove il processo generatore del positivismo meglio si rivela è in Ippolito Taine. Si è cercato nella sua lunga ed amorosa lettura di Hegel (5), e si è cercato nel suo entusiasmo per Spinoza, si è cercato nel suo amore per la logica e nella sua frequentazione della sala anatomica, la genesi delle sue idee; mentre più semplice sarebbe stato cercarla nella sua stessa costituzione morale, in quella vie et opinions de Thomas Graindorge, la piccola Bibbia del pessimista moderno, vestito all'americana, abitante in Parigi, e pieno delle formule darwiniane e positiviste. La filosofia morale di Th. Graindorge è l'occhiale traverso il quale il Taine ha veduto il mondo. Se riescite a considerare l'uomo come un gorilla appena infarinato di convenzioni e restrinzioni sociali, che da pochi secoli solo s'è coperto con un abito e da cinque solo sa servirsi della forchetta, se riescite a considerare la società come una foresta piena di bestie sottomesse alla più severa lotta per l'esistenza, resa più acuta da una malignità intellettuale senza limiti, se sapete rappresentarvi in questo modo le grandi città e i piccoli paesi di campna senza farvi illudere dalla luce elettrica cittadina e dalla bonomia astuta campnola, se scoprite nel vostro vicino vestito alla moda la bestia in agguato che non aspetta che la voce dell'istinto e la lontananza del gendarme per scannarvi o per farvi schiavo, avrete in breve lo stato d'animo di Ippolito Taine quando scriveva i suoi libri di positivismo.
   Con Taine, con Stuart Mill e con Schopenhauer finiva la grande leggenda del Positivismo. Morivano i santi e lasciavano le formule, che invano i bigotti della nuova chiesa tentavano d'animare con le pratiche esterne dei gabinetti e con la cultura di impersonalità scientifica; giacevano i cavalieri e ne ereditavano le ampie corazze tisici e rachitici che si gonfiavano di verbosità schematiche e classificatrici per poterle riempire. Ai maestri, pochi e ribelli, seguivano i discepoli, molti e accademici.
   Al Taine che parlava dei fatti come di tanti soldati che il filosofo sceglie, ordina e guida come egli vuole all'assalto delle idee contrarie, succede il Ribot che dei fatti fa degli Iddii. Allo Stuart Mill che apprezzava Kant, discuteva di gnoseologia, e voleva e dichiarava necessaria la metafisica, succede Spencer, che ignora Kant e lo combatte, non capisce nulla di gnoseologia e fa della metafisica senza accorgersene. (6) Alle voci d'ogni lato si moltiplicano le deboli eco, sempre più numerose e più deboli. I franchi tiratori di ieri alloggiano nella caserma positivista d'oggi, dove si gusta il rancio di Sergi e Compni. L'applauso fa decadere le cose; la fama schiaccia; la gloria rovina. Guai ai vittoriosi!
   Non esiste più il movente pessimista, ma è restato il positivismo che ne era espressione. Non si sente più il bisogno di calunniare l'uomo, ma continuano i metodi di calunnia. É morto l'anima del positivismo, e noi ne vediamo il cadavere.
   Nemico lettore, io vedo il volto tuo farsi arcigno; tu non sopporti gli scherzi e non ami le sorprese; e stai per chiamarmi truffatore, semplicemente perchè dopo averti solennemente promesso nel titolo di parlarti del Sergi, faccio delle scorrerie sul terreno delle lettere inglesi e in quello della filosofia francese e tedesca; e invece di esporti e di criticarti con educazione e con metodo le idee del prof. Sergi, me la cavo con quattro epiteti e con un paio di scherni.
   Nemico lettore, io voglio farti veramente meravigliare, e darti lo spettacolo insolito di un sofista che mantiene la sua parola, senza rifugiarsi dietro uno scaltro «distinguo» nè trovare scampo in una «restrizione mentale».
   Eccomi pronto, caro lettore. Io spoglio la bella cappa tessuta di sofismi, che è solita assistermi come una veste magica, nelle battaglie dialettiche, e metto per l'occasione il gabbano professorale, infilo le pantofole del critico assennato, metto gli occhiali della scrupolosità erudita. Son quà, pronto ad annoiarti con lunghe citazioni e ad infliggerti la scoperta di teorie contradittorie e di affermazioni illogiche. Ti farò vedere che io so farti sbadigliare, nè più né meno di un professionista della filosofia italiana.
   Usare dei metodi che il Sergi stesso adopra con i suoi avversari mi renderebbe facile il compito. Senza perdere tempo con l'Origine dei Fenomeni Psichici e senza affaticarmi con la Teoria Fisiolocica della Perfezione basterebbe che io riferissi le critiche del Regalia (7) sunteggiassi quelle del Caporali (8) ed aggiungessi per la Sociologia Sergiana la stroncatura fattene da A. Torre (9). Ed avrei la coscienza tranquilla, Il Sergi infatti sarebbe il primo a darmi ragione; non è lui forse che nel suo famigerato libro Origine ecc. ammette che si possa disprezzare un autore anche senza averne lette le opere, purché se ne conoscan dei critici? o non usò lui questo metodo spicciativo, con Luigi Ferri, confessando di non averne letto la Pyschologie de l'Associafion, ma dichiarandola insieme senza valore in base a quel che ne dice un certo Bonvecchiato in certa sua roba stampata verso il 1884 in Venezia? (10) Come si vede il Sergi non soltanto ha imitato lo Spencer che combatteva Kant confessando di non averne mai lette che le prime pagine, perchè gli autori a lui contrari non li leggeva; ma lo ha anche migliorato e continuato facendo più economico il sistema, senza spendere troppo fosforo in critiche, ma contentandosi di ripetere quelle degli altri. La bibliografia dei critici basterebbe per confutare il Sergi; delle citazioni compiacenti lo rovescerebbero; e un mosaico di parole altrui terrebbe logicamente il posto delle mie.
   Ma io non voglio esser così gretto e cosi avaro; la parte di fonografo non mí attira; e d'altra parte come si spiegherà, alla fine — ho bisogno d'ingozzare e sentire il cattivo gusto delle vivande sergiane. Vediamone la storia e i casi tipici.
   Il pensiero del Sergi è stato molto avventuroso, ma senza mostrare buon gusto, e s'è accontentato della funzione di ripetitore, senza far troppe smancerie sulla materia da ripetere. Egli s'è trovato di fronte alle idee come un buon contadino arricchito di fresco e portato all'improvviso sui boulevards di Parigi. Le sue amanti sono state sempre vecchie cocottes sfiancate, resti di grandi signori passati a più giovani tresche. Egli ha bazzicato con la filologia (11) e con le letterature classiche (12) e forse per non esservi riescito bene, ha giurato quel sacro odio al greco e al latino che egli ha cura di mettere in mostra ad ogni occasione, pur prevenendo il lettore con certi suoi rimasugli di erudizione (non di spirito) classico, dove si vede che conosce l'aoristo di ὁράω e la costruzione del verbo doceo (13). Ci si sente quasi l'ex-professore di liceo, felice di potersi sfogare con la calunnia di quello che non era stato capace di sfruttare. E in ciò, il Sergi somiglia al suo idoletto Spencer, che per esser riescito cattivo scolare di umanità voleva rendere universale la sua incapacità a comprendere Livio e a tradurre Eschilo, ed appoggiava la sua impotenza classica, con ragioni da venditore di guano, in quel suo libretto sulla Educazione che naturalmente ha fatto fortuna.
   Il Sergi ha anche avuto delle relazioni, illecite per un futuro positivista, con la metafisica; ma in quel modo in cui gli archeologi, che son molte volte artisti mancati, si sciupano gli occhi leggendo al chiaro d'una lucerna etrusca, e mangiano in una ceramica sbonconcellata del quattrocento, così lui, incapace a crearsi una metafisica, ha voluto risuscitare quella antica di Italia (14).
   La merce nazionale non avendo avuto smercio, tentò di vendere quella straniera; e il mercato filosofico italiano accolse con stupefazione prima, con ira poi e infine con rispetto ed idolatria, le idee di Spencer, nel 1878-1880 (15). Dal 1880 l'onesto Sergi scava il filone ancora inesauribile, e sfrutta la bestialità italiana, ingombrando scaffali e teste di libri, di articoli, di idee castrate, di fatti insignificanti, e di sentimenti volgari. Bisogna riconoscere che è stato un gran lavoratore. Non avendo che due o tre semi-idee è riescito a sporcarci una infinità di carta stampata; e stemperando ad ogni proposito, fosse morale o politica, psicologia o sociologia, le sue cognizioncelle biologiche, ci ha dato la idea perfetta di una macchina produttrice inesauribile di vinello filosofico. Il suo positivismo è il più stracciato e il più male in gambe dei positivismi europei — meno forse lo Spnolo.
   Se un chiodaiolo o un bottegaio dovessero trovarsi una filosofia io penso che sceglierebbero quella del Sergi. Fatta di cose piccole e dominata dalla idea utilitaria, essa si addice perfettamente alle abitudini ed ai sentimenti del meccanico e del trafficante. La filosofia del Sergi è quindi eminentemente moderna: cioè, meschina e democratica.
   Da buon positivista il Sergi ha dato grande importanza a un problema metafisico: l'origine della psiche, senza neppure accorgersi, con la sua ingenuità, che porre il problema era insieme risolverlo. Credendo di fare opera di ricercatore, non ha fatto che opera di dogmatico. Se, infatti, si ammette che la psiche possa avere un'origine, si nega che essa sia indipendente da ogni altra cosa; e magari si ride al titolo di un libro Sull'origine della materia, ma si parla con serietà di una origine della Psiche. Il primo punto, il soggetto stesso del libro non è che una gratuita asserzione e insieme uno sbaglio di metodo. Prima, infatti, di studiare l'origine della Psiche, non ci si potrebbe domandare: «può la Psiche avere un'origine?»
   Ma il Sergi non si preoccupa per queste sottigliezze e va diritto al suo scopo, seguendo sempre le sue inclinazioni utilitarie che ne avrebber fatto un ottimo gerente di banca e ne han fatto un pessimo filosofo. «Tutto il volume» — egli dice — «è stato scritto per dimostrare un fatto che è anche un principio (meraviglioso!) cioè, che la Psiche è una funzione vitale e funzione di protezione e che l'origine sua non è diversa dall'origine della funzione nutritiva, colla quale nasce e si svolge parallelamente» (16). Così la psiche non è nè più, nè meno che una cosa utile come lo stomaco, e il pensiero su per giù qualcosa come la digestione; c'è qui una reminiscenza Moleschottiana, filtrata, traverso un poco di Darwinismo male inteso. Lo Swift si rallegrerebbe per questa teoria, e gli occhietti vivaci di Schopenhauer sorriderebbero di gioia maligna.
   Ma il curioso è che questa teoria è anti-positivista, perchè è teleologica. Senza finalismo, come ammettere una protezione? e questa protezione, la si cacci poi in tendenza dell'animale, o la si nasconda entro la legge di inerzia della materia (17) è sempre e in ogni modo finalista, nè più nè meno degli istinti animali secondo i teologi odiati da Sergi. Nelle critiche citate il Regalia ha posto bene in luce questo teleologismo di cui il Sergi non s'accorge; e di cui non s'è accorto neppure dopo le osservazioni fattegli anche dal Caporali, perchè il Sergi ha il dono di non capire mai le critiche che gli si fanno. È la sua eterna confessione, e col Regalia, e col Caporali, e col Panizza; (18) non so se confessione ingenua, o metodo comodo per evitar le batoste.
   V'è di peggio. Per disgrazia del Sergi esistono delle finzioni psichiche assolutamente inutili, punto protettive, e per di più molto sviluppate. Il Sergi, le ha dimenticate, o ha tentato di farle apparire come protettive con zoppicanti giocherelli di logica. Io, ad esempio, non so spiegarmi se la psiche è una funzione protettiva, cosa e come abbiamo protetto tre cose che il Sergi ignora od odia: l'arte — la metafisica — la religione.
   Dell'arte, se la cava non parlandone. Il metodo è più che spiccio; addirittura spenceriano (19).
   Della metafisica neppure una parola. Con tutta la buona volontà del Sergi sarebbe stato difficile trovare la funzione protettiva dell'organismo nel sistema di Descartes o nell'idealismo di Berkeley. Vi immaginate la «Critica della Ragion Pura» messa insieme ai paraventi e alle pelliccie che ci salvano dalle polmoniti? Come mai tanti uomini si sarebbero persi a commentare Spinoza, se le pagine del quieto ebreo non ci curano una malattia, ne ci difendono contro un nemico?
   Per la religione il Sergi si trova imbarazzato, e cerca di ridurla sotto il suo principio con un giocherello zoppicante che mostra la miseria dialettica di questo biologo. Egli comprende che se la psiche fosse puramente protettiva, essa avrebbe fatto sempre e null'altro che della scienza, e che il fine più necessario ad una attività di difesa sarebbe stato quello di conoscere l'ambiente. Come si spiega però che la scienza sia sorta assai tardi, rispetto alla religione, che venne prima ed ebbe ed ha ancora più larghe e profonde basi? — Ed ecco che il Sergi vien fuori a dire che «questa attività costituisce un fenomeno o un complesso di fenomeni che hanno lo stesso scopo, la protezione, colla differenza che questa nel modo che si cerca e si invoca, non si raggiunge minimamente benchè ne abbia l'apparenza e costituisce un'illusione e insieme una delusione della umanità fin dalle origini al presente» (20). Ma, allora, egregio Sergi, dove se ne va la legge darwiniana della sopravvivenza degli organi adatti? E come avrebbe potuto continuare ad esistere la specie umana se continuamente avesse disperso le forze dedicate dalle altre specie non religiose, alla protezione non illusoria? oppure al vostro anticlericalismo fa più comodo Voltaire che Darwin?
   Il Sergi non potendo mettere d'accordo l'attività religiosa con il suo credo da trafficante, la scomunica e la dichiara «un organo nato da una escrescenza, una funzione patologica della difesa» (21) insomma, un fenomeno morboso dello spirito. «Le religioni sono manifestazioni della funzione protettiva anche esse, benchè non siano normali...» (22).
   In questa teoria, più che in ogni sua altra, c'è tutto il Sergi: c'è il suo anticlericalismo che trepida di gioia chiamando la religione una rogna e il clero un piccolo cancro; c'è la sua superficialità, che si esprime col prendere per spiegazione, quello che è soltanto un'immagine; c'è la sua goffaggine logica nell'avere chiamato un così sciancato sofisma a far da cariatide a una così traballante costruzione.
   Infatti tale teoria urta contro tutto il metodo positivista, di cui il Sergi si dice seguace, salvo a scantonarne quando gli accomodi. Per un determinista, non deve esistere nè normale, nè anormale, nè il sano, nè il morboso, ma soltanto il necessario. Patologico, morboso ecc., sono parole che possono star bene in bocca soltanto a chi ammetta una finalità nello sviluppo del mondo; senza questo non c'è ne patologico, nè psicologico. Per un determinista convinto la malattia è cosa così naturale come la sanità; e l'aborto è tanto nel corso della natura quanto la statua greca; nè l'una cosa, nè l'altra escono dalle leggi universali.
   Nè ciò basta. La religione, secondo il Sergi, precede la scienza, e dovrebbe essere a poco a poco cacciata dal mondo con la scienza. La scienza pel Sergi, è la normalità. Così avremmo un'evoluzione dove l'anormale precede il normale, dove all'inizio dello sviluppo si avrebbe il patologico, dove dal patologico nascerebbe il fisiologico. Come ciò possa ancora accordarsi con tutto il sistema positivista, non si sa davvero.
   Un'altra pseudo-idea del Sergi, di quelle più strombazzate, e sulla quale non ha mancato di intessere articoli e capitoli di libri, è quella della stratificazione del carattere (22).
   E l'ho chiamata pseudo - idea perchè è soltanto un'immagine, non una coordinazione e spiegazione di fatti. Essa ci rivela meglio di cento analisi la mente del piccolo scienziato che vuol fare grande filosofia, che con la mente gravida di immagini meccaniche e scientifiche non esita a porre una di queste nel posto della realtà. Così pel Sergi, il carattere umano rassomiglia alla terra quale, dopo Lyell specialmente, ce la rappresentano i geologi, formata di strati sempre più antichi, man mano che va facendosi più profonda. Immagine, come si vede, puramente meccanica e spaziale, e per natura affatto inadatta a presentare le sfumature e le infinite qualità individuali della psiche. Per essa l'animo vien concepito come una serie di burattini che si contengono l'uno nel corpo dell'altro, avvolgendo il superiore e più evoluto tutti gli altri anteriori, da quello del selvaggio fino a quello del padre. Ognuno di questi burattini (strato di carattere) agisce per conto proprio, sicché stamani ad esempio, quando voi avete letto ed ammirato l'ultimo libro del Sergi, ha agito in voi l'ultima stratificazione, quella più moderna, oggi poi quando avete regalato a un bimbo di vostra conoscenza, un piccolo battaglione di soldatini russi di piombo, ha agito in voi l'uomo d'armi del XIV secolo; e così via. Quello che nel carattere è essenziale — la unità, quello che della psiche è proprio — la fusione, — è dimenticata volutamente dal Sergi. Non vi poteva essere teoria più rozza, più grossolana, più vagamente e inutilmente materialista di quella.
   Un terzo ed ultimo esempio delle contradizioni e delle vacuità del Sergi psicologo è quel che si riferisce alla dottrina intorno al Piacere e Dolore (23) sulla quale non ha mancato secondo il solito, di prendere un luogo comune che neppure lo Spencer aveva osato sostenere assolutamente, e di tesserci sopra un libro, dei capitoli di libro, e degli articoli. «Ciò che reca dolore è nocivo alla conservazione dell'individuo e bisogna allontanarlo; ciò che è piacevole, è utile, e bisogna tenerlo e giovarsene.» (24) Evidentemente il Sergi sostiene con questa formula che la casa di Pompei ornata del phallum sporgente e della ingenua scritta «hic est felicitas» sia il più adatto luogo per rinvigorire l'uomo e per conservare l'individuo e la specie; e che il tabacco, l'alcool, l'oppio, l'haschich, che sono così piacevoli — chiedetene a un cinese o a un indiano — valgano più delle iniezioni dolorose di ferro e delle seccanti cure idroterapiche a salvare le razze. Ma perchè indugiarsi in queste così semplici obiezioni? questi trespoli barcollanti non han neppure la bellezza dei tremolanti castelli di carte che ci apparecchiava la metafisica tedesca, nè sono le potenti ali che Leonardo dava agli uomini più con i suoi frammenti filosofici e poetici che con gli studi sull'aeronave. Contentiamoci di notare una delle contradizioni in cui è solito impelagarsi il Sergi.
   Egli vuol essere, da buon democratico e lettore degli Enciclopedisti, un ottimista, nè s'accorge che la sua dottrina utilitaria del piacere e dolore gli è contraria. Egli afferma che «se si eccettuano circostanze eccezionali.... nella vita individuale di ogni uomo si esperimentano più piaceri che dolori,» (25) e d'altra parte che «la continuazione dei dolori non solo nuoce all'esistenza ma la distrugge.» (26) Le quali affermazioni sono contradittorie, perchè se (come penso che il Sergi ammetta) tutti gli uomini sono finora morti, ciò vuol dire che in essi c'è stato più dolore, che piacere, e maggior numero di condizioni disutili che utili alla vita. Ossia che la dottrina ottimista è contraria alla storia.
   Cosa è dunque stato il professore Sergi?
   Ribattiamo gli ultimi chiodi della sua bara, e componiamolo e chiudiamolo in una definizione che sia insieme mausoleo ed epigrafe, valutazione e condanna, che classifichi e schiacci.
   Il prof. Sergi è l'ultima degenerazione dello stato d'animo positivista. L'evoluzione del positivismo manifesta in lui l'ultimo stadio: non potrà cadere più in basso.
   Infatti, sebbene passino per positivisti, Ippolito Taine e Giovanni Stuart Míll non appartennero a questa scuola; essi furono maestri e iniziatori, e i maestri e gli iniziatori non appartengono alle scuole. Furono i primitivi del positivismo, ebbero la passione delle idee e il coraggio di manifestarle. Non fecero della filosofia tiepiduccia, riscaldata alle quattro bracia dei focherelli morali di accademia; non furono delle astrazioni che camminano su due gambe, ne delle cattedre sillogizzanti; ma furono e seppero farlo vedere, delle persone. Taine fu l'artista, Stuart Mill il logico; l'uno e l'altro dei passionali. E le visioni piene colorite viventi del primo sono ancora fra i più accetti visitatori del mio palazzo intellettuale; e la bella macchina logica del secondo, così pulita precisa sicura, mi ricorda sempre le giornate venete che io divideva fra «Esame della Filosofia di Hamilton» e i quadri di Giovanni da Negroponte e di Jacobello del Fiore.
   I seguaci non furono persone. Una pina di Ribot e una di Spencer si confondono nella stessa mediocrità. La loro filosofia si accomoda a migliaia di menti, grossolana e ridicola come i vestiari d'ordinanza dei fantaccini moderni. Il positivismo è diventato una gran sartoria di «completi» già fatti, adatti a tutte le misure medie di mente. Di qui la sua riescita fra le democrazie.
   Il positivismo italiano fu, fra i suoi fratelli europei, il fanciullo tardivo che rassomiglia più, alla specie anteriore, cioè al materialismo, che a quelle venture, cioè agli idealismi. Fu un arresto di sviluppo filosofico, il cui grande proposito era di giungere alla morale, per una via scientifica invece che per una via metafisica.
   Ma da questo positivismo, il Sergi esclude ancora gli elementi migliori che vi rimanevano. L'Ardigò s'era occupato di teoria della conoscenza, e il Sergi non ne volle sapere; il Tarozzi aveva tentato di liberarsi dal determinismo giungendo a proposizioni simili a quelle degli eretici della contingenza, e il Sergi fu più determinista che alcun altro.
   Di qui la sua definizione: l'ultimo esempio di un progressivo peggioramento del Positivismo.
   Ma per noi che non siamo degli storici scrupolosi contenti soltanto d'erudizione, ma soprattutto dei goditori e dei cultori del proprio io, quale valore rappresenta il Sergi?
   Rappresenta il succo del Positivismo, il fiele del fiele, la melma della melma, e ci è utile come i pus che immunizzano contro le malattie.
   Il Sergi è per noi quello che un religioso assai strano chiamava la «santa settimana del peccato.» Una volta ogni anno questo eremita casto e silenzioso scendeva dalla torre montana ove abitava, giù nella città bassa del piano. E le tasche colme d'oro, per sette giorni banchettava cortigiane voluttuose e mimi osceni, adulatori e vagabondi e parassiti, poeti vaghi e filosofi epicurei e bestemmiatori. Per sette giorni il suo stomaco si riempiva di cibi deliziosi e di vini squisiti; per sette giorni ne esaurivano il corpo i sapienti baci delle virtuose dell'amore; per sette giorni il Suo spirito navigava fra gli scogli della sofistica e le sirti delle musiche. Ma la mattina dell'ottavo giorno lo vedeva con l'abito severo e il tradizionale bordone, riprendere lento il cammino, curvo sotto la provvisione di peccato. Ancora le parole serali con cui malediva Satana che s'avvicinava con la notte e quelle mattinali con cui ringraziava il Signore, tornavano ad avere il senso della realtà; non erano nè verbalismi vuoti, nè flaccidi e imprecisi fantasmi lontani come quelli di un seminarista ognora rinchiuso in sè stesso.
   Tale è il nostro viaggio fra i libri di Giuseppe Sergi; è disgustoso, ma utile, è ripugnante, ma necessario. Fa parte della nostra cultura negativa, quella che ci insegna a conoscere le cose e gli uomini per separarci da loro e dire la parola che dolce suona all'animo nostro: il no.

(I) Il saggio precedente apparso nel numero X del 1903 era: «Un filosofo straordinario: F. De Sarlo». In questo mí occupo del Sergi soltanto come psicologo e come valore morale; tralascio completamente l'antropologo. Nel volume precederanno i saggi, cenni biografici, e seguiranno note bibliografiche più ampie.
(1) Tutti sono d'accordo sul fatto che il Sergi non sappia scrivere: anche lo stesso Sergi. Di questa qualità propria in particolar modo ai nostri professionisti della filosofia è modello il seguente periodo del Sergi: «Coloro che sono morti di fame o di sete, di quest'ultima si lamentano maggiormente, ed a questa ultima non sanno resistere se la morte è volontaria» periodo che tolgo dagli Elementi di Psicologia. Messina 1879, p. 75. libretto destinato ad istruire i nostri studenti delle scuole secondarie!
(2) Di Teoria della Conoscenza il Sergi ignora i primi rudimenti; basta dire che ha avuto il coraggio di sostenere che essa debba seguire alle scienze biologiche! Teoria fisiologica della Percezione, 1881, p. 330.
(3) Chiunque ha familiarità con gli scritti del Sergi sa che sia parlando di morale che di politica, d'astronomia o di commercio (poichè nulla lascia intentato) egli non può fare a meno di rifriggere in mille unti le sue cognizioni biologiche.
(4) Gli errori matematici e statistici del Sergi (che dà pochissima importanza alle scienze esatte) sono mostrati con evidenza dal prof. Regalìa nel suo lavoro Sulla nuova classificazione umana del Prof. Sergi (Arch. per l'Antrop. e l'Etnol., Vol. XXIII, fasc. I, 1893, p. 92-152). In questo opuscoletto di note v'è una raccolta interessantissima di sfondi geometrici del Sergi.
(5) BARZELLOTTI G. La philosophie de H. Taine, Paris, Alcan, 1900.
(6) Nella Fortuna dei Filosofi studieró questa decadenza del l'ovismo, e specialmente le relazioni fra Mill e Spencer.
(7) E. REGALIA, Non «Origine» ma una legge negletta dei fenomeni psichici. in Riv. di Fil. Scient. 1887; La Psiche ha origini da bisogni? in Riv. di Fil. e Scienze Aff., 1902.
(8) CAPORALI E., La nuova Scienza. 1886. Todi.
(9) TORRE A. Le Idee Sociologiche del Sergi. in Riv. di Roma, 1899.
(10) L'origine dei fenomeni psichici e la loro significazione biologica. Milano, 1885, p. 125, in nota.
(11) Il tema pronominale di prima persona nelle lingue indo-europee, in Rivista Sicula. Palermo, 1872.
(12) Sul dramma tragico, in Istitutore Peloritano. Palermo 1874.
(13) Le scuole classiche in Italia. Napoli 1881. La decadenza delle Nazioni latine. Bocca, Torino.
(14) Usiologia, ovvero, Scienza dell'Essenza delle cose. Rinnovamento dell'antichissima filosofia italiana. Noto 1868.
(15) Gli Elementi di Psicologia, sono del 1879 (più noti nella traduzione francese Psychologie Physiologique Paris, Alcan 1888); Sulla natura dei fenomeni psichici apparve nell'Archivio per l'Antropologia ecc, nel 1880; la Teoria Fisiologica della Percezione (l'opera biologicamente più seria del Sergi) fu dato alla luce nel 1881. (16) L'origine ecc, p. 435. Cfr. La Psiche nei fenomeni della vita. Torino, Bocca, p. 221.
(17) L'origine ecc,, p. 58.
(18) p. e. La psiche ecc. p. 104.
(19) Alludo alla poca nota polemica Spencer-Carus, a proposito di Kant, nella quale Spencer confessò di non aver letto che le prime pagine della Critica «for, being an impatient reader, when I disagree with the cardinal propositions of a work I can go no further». (CARUS P. — Kant and Spencer. Chicago, 1899, p. 99).
(19, 20, 21) L'origine ecc,. p. 333, 334, 335.
(22) La stratificazione del carattere, e della delinquenza, in Riv. di Fil. Scient. 1883; Per l'educazione del carattere. Torino 1885.
(23) Dolore e Piacere. Storia naturale dei sentimenti. Milano, 1894
( 24, 25, 26) L'origine ecc., p. 427, 432, 433.


◄ Fascicolo 12
◄ Giuseppe Prezzolini